La carità

La carità al centro della teologia agostiniana

S. Agostino, conosciuto come il dottore della grazia, è anche il dottore della carità. Commentando la prima lettera di Giovanni, la lettera della carità, diceva ai fedeli: “Quanto più godo di parlare della carità, tanto meno vorrei terminare la spiegazione di questa lettera. Nessuna è più calda nella raccomandazione della carità. Niente di più dolce vi può essere predicato, niente di più salutare potete bere” ( Io ep tr 8, 14). La carità è l’oggetto di tutta la rivelazione biblica. Cristo stesso non è venuto nel mondo se non a causa della carità. Con l’incarnazione e la morte in croce Cristo ci ha rivelato non solo che egli ci ha amati fino a dare la sua vita per noi, ma che anche il Padre ci ama, proprio perché, come dice l’Apostolo, “Egli non risparmiò il proprio Figlio, ma lo diede per noi tutti”( ib 7, 7). Con tale rivelazione il dio di Platone, il Bene e il Principio impersonale, il dio che non comunica con gli uomini, cede il posto al Dio-Amore. Dio rimane sempre avvolto nel mistero. Ma agli occhi di coloro che credono a Cristo il mistero divino si riveste di una luce abbagliante: nell’unità perfetta del Dio rivelato da Gesù Cristo pulsa dall’eternità un’intensa vita d’amore trinitario. C’è il Padre che per amore genera il Figlio, donandogli tutto ciò che è e tutto ciò che possiede; c’è il Figlio, che riceve tutto dall’amore del Padre, ma che ricambia l’amore ricevuto donandosi a lui con uguale amore; c’è infine lo Spirito Santo, lo Spirito del Padre e del Figlio, che è il loro mutuo amore, la loro amicizia, la loro comunione consustanziale. Agostino, grande ammiratore di Platone, resta abbagliato dal Dio trino e uno della rivelazione cristiana. Dall’inizio della sua conversione agli ultimi anni di vita spende tutta la forza della sua mente per riflettere sulla Trinità divina, facendosi guidare dalla fede della Chiesa. Il suo contributo più originale alla storia della teologia, riconosciuto anche da S. Bulgakov, sta proprio qui: nell’aver presentato per primo la vita trinitaria come una comunità di amore. Una sua immagine si può trovare anche nell’amore umano: anche nell’amore di un amico “ci sono tre cose: uno che ama, ciò che ama e l’amore ” (Trin 8,10, 14).

Alla luce della rivelazione trinitaria, poi, legge tutta la storia della salvezza, a cominciare dalla creazione. Il mondo è opera della Trinità creatrice ed è opera di amore: “il Padre ha creato insieme tutte le cose ed ogni singola natura per mezzo del Figlio nel dono dello Spirito Santo” (vera rel 7, 13). Dio non ha creato il mondo perché avesse un bisogno da soddisfare, ma per puro amore. Proprio perché Dio ha creato tutto con amore e sapienza, tutte le creature sono buone e belle. In ognuna di esse si possono riconoscere un vestigio della Trinità divina. Un caso del tutto particolare è costituito dall’uomo. L’uomo infatti è l’unica creatura di questo mondo che sia stato creato a immagine di Dio, dotato cioè di ragione e volontà libera per conoscere e amare Dio. Con ciò si comprende la grande dignità dell’uomo, chiamato da Dio a dialogare e cooperare con lui nella storia. L’uomo è l’unico essere sulla terra capace di conoscere il disegno di Dio sulla storia e coinvolgersi liberamente alla sua realizzazione.

Questo disegno, che si è manifestato pienamente in Cristo, è ancora un disegno di amore. Da una parte abbiamo saputo che il Padre “non ha voluto che il suo Unigenito Figlio restasse solo e, affinché avesse dei fratelli, adottò dei figli che potessero possedere con lui la vita eterna”( Io ep tr 8, 14), dall’altra parte che “l’il Figlio unigenito è morto per noi per non rimanere l’unico. L’unico che morì non volle essere il solo. L’unico Figlio di Dio fece molti figli di Dio. Si acquistò dei fratelli con il suo sangue”( S. 171, 5). Così il Padre e il Figlio operano nel mondo per amore l’uno dell’altro e nel loro amore coinvolgono gli uomini. Il disegno divino attraversa tutta la storia dell’uomo e si realizza per tappe. Annunciato in modo oscuro con la promessa fatta ad Abramo, incomincia a prendere piede con l’antico popolo dell’Alleanza, si configura chiaramente con la Chiesa di Cristo e si realizzerà pienamente nel cielo con “la società perfettamente ordinata e concorde, in cui tutti godranno di Dio e l’uno dell’altro in Dio” (Civ Dei 19, 17).

La Chiesa, dunque, è l’altro grande tema della riflessione teologica agostiniana. Essa è vista di preferenza come un mistero di unità : “molti e un solo corpo in Cristo”(ib 10, 6), ma anche come un mistero di carità: la Chiesa è essa stessa Caritas. Nasce il giorno di Pentecoste, quando sui discepoli riuniti nel cenacolo scese lo Spirito Santo sotto forma di lingue di fuoco: “essi furono tutti pieni dello Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue”( At 2, 4). Il prodigio delle lingue per S. Agostino è un chiaro segno della cattolicità della Chiesa, chiamata ad estendersi in tutto il mondo, affinché gli uomini dispersi in una molteplicità di popoli, di lingue e di culture fossero riportati all’unità mediante l’unica fede, l’unica speranza e l’unica carità. La Chiesa, perciò, è un riflesso della Trinità, perché a tenerla unita insieme è lo stesso Spirito Santo, che è il dono che unisce da sempre il Padre e il Figlio: “Essi hanno voluto che noi fossimo in comunione tra noi e con loro con ciò che hanno in comune tra loro e mediante questo dono raccoglierci nell’unità”( S. 71, 12, 18). La vera natura della Chiesa trova la sua prima espressione nella comunità dei credenti descritta dagli Atti degli Apostoli: “La moltitudine di coloro che eran venuti alla fede aveva un cuore solo e un’anima sola e nessuno diceva sua proprietà quello che gli apparteneva, ma ogni cosa era fra loro comune”(At 4, 32). Sono testi questi di fondamentale importanza per l’ecclesiologia agostiniana. Allo scisma dei Donatisti il vescovo di Ippona oppone costantemente il disegno di Dio di una Chiesa cattolica, diffusa in tutto il mondo, quale si manifesta nella promessa fatta ad Abramo e nel miracolo delle lingue il giorno di Pentecoste. D’altra parte, l’esperienza della comunità di Gerusalemme costituisce per lui un punto di riferimento altrettanto costante per la vita quotidiana delle comunità ecclesiali. Egli vuole che nella sua chiesa si celebri quotidianamente l’Eucaristia, perché questo è “il sacramento dell’unità” ( Ep 185, 11, 50), “è il sacramento della nostra unità e della nostra pace”( S. 272). Quando si celebra il memoriale del sacrificio della croce, in cui Cristo sacerdote offre se stesso come vittima, la Chiesa si unisce al suo capo, offrendo anche se stessa, la sua vita di reciproca carità, in cui ciascuno porta il peso dell’altro, e impara da lui a offrire se stessa (Civ dei 10, 20).

Ma perché ciò avvenga è necessario che i singoli fedeli siano rinnovati interiormente dallo Spirito Santo. Con il battesimo essi hanno già ottenuto la remissione dei peccati, l’ostacolo che separa da Dio, e sono stati resi figli adottivi di Dio, membri del corpo di Cristo e tempio dello Spirito Santo. Sono dunque chiamati a vivere secondo i doni ricevuti, per crescere e progredire nella carità. Non possono più vivere per se stessi, ma come figli amati da Dio, ricambiando l’amore del Padre; come membra del corpo di Cristo, curando gli interessi di Cristo, suo Capo, a beneficio di tutto il corpo, che è la Chiesa; pienamente consapevoli di essere tempio di Dio, per fare della propria vita un’offerta a lui gradita. La vita cristiana così concepita non è che un’esperienza di amore verso Dio e verso i fratelli. Per questo motivo S. Agostino ha combattuto contro ogni tipo di naturalismo e legalismo nella vita morale. Pelagio voleva essere un austero riformatore della Chiesa. Ma nel suo zelo commetteva due errori: da un lato invitava il cristiano a fare pieno affidamento sulla volontà umana, come se tutto il bene dell’uomo dipendesse da lui solo; dall’altro lato dava tanta importanza all’osservanza della legge, senza preoccuparsi affatto dell’amore che deve animare l’osservanza. Così facendo, dimenticava la promessa fatta da Dio per mezzo del profeta che nella nuova Alleanza avrebbe dato ai credenti un cuore nuovo e uno spirito nuovo. La profezia nell’interpretazione dell’Apostolo si è adempiuta con il dono dello Spirito, che ha scritto la legge dell’amore nel cuore dei credenti. Pertanto, conclude S-Agostino, “appartenere al Testamento Nuovo vuol dire avere la legge di Dio scritta non su tavole, ma nel cuore, cioè abbracciare la giustizia della legge negli affetti intimi, dove la fede diventa operosa mediante la carità”(Spir et litt 26, 46). D’altra parte, ancora l’Apostolo aveva detto che “la pienezza o il compimento della legge è l’amore”. Pelagio dimenticava anche questa lezione, rischiando di riportare l’esperienza cristiana al legalismo condannato nel vangelo. Per S. Agostino, invece, quello che conta nell’agire morale è l’amore di Dio e del prossimo. Osservare una legge giusta, fare un’opera di misericordia senza amore o peggio per motivi egoistici, non vale nulla. Il suo invito è che ciascuno interroghi la propria coscienza per sapere qual è la vera motivazione del proprio operare: se la carità o l’amore di sé. Il suo pensiero è racchiuso tutto nel famoso principio: “ama e fa ciò che vuoi”, dove l’amore è quello di benevolenza, che abbraccia il Creatore e le creature.

Alla luce di questa concezione della carità, che abbiamo cercato in fretta di illustrare, non meraviglia che S. Agostino finisca per riporre in essa il criterio supremo per interpretare la Scrittura. Poiché tutta la rivelazione, contenuta nelle Scritture, non parla se non dell’amore di Dio, che si manifesta nella creazione e nell’opera della redenzione, e poiché tutto quello che Dio vuole dall’uomo si riassume nel duplice precetto dell’amore di Dio e del prossimo, “chiunque crede di aver capito le divine Scritture o una qualsiasi parte delle medesime, se mediante tale comprensione non riesce a innalzare l’edificio di questa duplice carità, di Dio e del prossimo, non le ha ancora capite”(Dott Crist 1, 36, 40).